Una pianta preziosa e generosa, simbolo di una cultura antica e del Mezcal: il maguey o, per tutti, l’agave.
¡ARRIBA EL MEZCAL!
L’arrivo dell’autunno non ci impensierisce e se il mezcal è stato protagonista dei vostri drink estivi, a maggior ragione noi proseguiamo a raccontarvi la sua antica storia, la sua tradizione e i suoi tanti… perché!
[si legge, più o meno, in: 6 minuti]
Proseguiamo a farlo con il nostro “Affabulatore alcolico” Mauro Bonutti, con la sua preparazione e con il suo stile piacevole, semplice ma al tempo stesso altamente divulgativo. Siamo tornati indietro di secoli per arrivare, stavolta, ai giorni nostri e a quelle fasi che trasformano il “cuore” di una pianta nel “cuore” di un distillato.
¡Arriba el Mezcal! Buona lettura.
[la redazione]
Mezcal: alla scoperta dell’agave
La figura dell’affabulatore è complicata. Raccontare storie, leggende, mezze verità, rende sempre piacevole il discorso, attira chi si mette in ascolto e lo incuriosisce ma, ogni tanto, si sente il bisogno di andare oltre e ancorarsi alla solida realtà delle cose. La cosiddetta “fredda cronaca”, come diceva qualcuno.
È il momento in cui entrano in gioco (e deve rimanere pur sempre un gioco) la scienza, il dettaglio, la precisione. Ed ecco che si volta il cappellino e si cambia la scritta, per lasciare il posto al centro della scena, con tutte le luci accese, al divulgatore, al cosiddetto “esperto”.
Ci cospargiamo necessariamente il capo di cenere, scusandoci per il paragone irriverente, ed entriamo per qualche attimo in quella che possiamo definire “modalità superquark“:
Siamo ormai tutti esperti, e sappiamo tutti che per ogni distillato la sua storia inizia sempre con una materia prima “zuccherina”, che nel caso del nostro mezcal abbiamo identificato con questa agave o questo maguey. Ma, la/lo conosciamo? Quanto ne sappiamo?
Accendiamo allora la “musica”, facciamo partire la sigla che conosciamo a memoria, e andiamo a fare conoscenza con questa pianta. Si parte, altro giro altra corsa…!
Prendiamo un qualsiasi dizionario, che sia un bel tomo cartaceo o la banale Wikipedia, e alla voce “agave” troveremo una definizione più o meno simile a questa:
Genere di piante appartenenti alla famiglia della agavacee (o succulente), il cui termine significa “splendido”, “ammirabile”. Comprende oltre 300 specie, tutte diverse e di dimensioni molto variabili ed è diffusa in tutto il mondo ma soprattutto nella parte centrale delle Americhe. Costituita da un grosso corpo ovalescente immerso nel terreno (bulbo o “pigna”) tutto sormontato da una serie di foglie di varia forma allungata, raccolte a rosetta. Dopo lunghissimi anni di vita fiorisce una sola volta e muore.
Semplice e sintetico, quasi tristemente romantico nel finale, ma poco utile per capire come da tutto questo si possa arrivare al nostro mezcal. La strada è lunga e necessita andare decisamente più nel dettaglio.
Piccola precisazione lessicale: nel nostro dizionario, agave è un sostantivo femminile ma per i messicani (e gli spagnoli) è di genere maschile. Non mi farò prendere dall’esotica (e forse più semplice) tentazione di utilizzare nell’articolo solo il maschile, sarò equo e di “pari opportunità” affidandomi ad ambo i generi sulla base del soggetto. Fateci caso.
L’agave o il maguey
Partiamo dicendo che l’agave è una pianta di cui si trovano tracce dalla notte dei tempi (si inizia sempre con “C’era una Volta…”) e ha trovato il suo habitat naturale nelle terre calde del Messico dove possiamo trovare sparse nei suoi immensi territori una gran parte delle specie esistenti (quasi 250 catalogate e in continuo aumento).
Si è adattata a vivere in queste zone così aride fino a crearsi un vero e proprio ecosistema ma non scordiamo che, guardandoci bene attorno e lungo le nostre vie, possiamo trovarla in tante versioni domestiche a cui, magari, finora non abbiamo fatto caso.
Storicamente nota quando “gioca in casa” con il termine nativo (e maschile) di maguey, viene ridenominata con il suo nome più internazionale di agave nel 1753, dal famoso botanico svedese Linneo nel suo libro “Species plantarum” dove raccolse i risultati di tutti i suoi lunghi anni di studio in giro per il mondo a classificare le specie viventi.
Si tratta di specie molto diverse tra loro, seppur tutte di caratteristiche similari, con foglie esterne di forma e colore variabile, che possono andare dai 50 cm ai 4 metri e con la pigna sottostante che può arrivare in alcuni casi fino ai 500 chili. Pigna che contiene al suo interno immense quantità di sostanze amidaceo/zuccherine che sono quelle che interessano ai nostri (un po’ meno nobili) scopi alcolici.
Le foglie sono lunghe e fibrose, di un certo spessore, con tonalità di colori che sfumano dal verde al grigio passando per il bluastro, con serie di spine disposte a intervalli regolari lungo il bordo, come denti aguzzi messi a protezione e difesa.
Sono piante dalla crescita molto lenta, indicativamente dai 6 ai 70 anni a seconda della specie, tanto che si dice: “il Mescalero Giovane vede nascere il Maguey che distillerà da vecchio…”.
Caratteristica comune è che quando l’agave si avvicina al suo fine vita, sulla sommità cresce un lungo grosso stelo puntellato da gruppi di fiori colorati che, nelle specie più grandi, può raggiungere i 10 metri di altezza. Trattasi del “canto del cigno” perché è appunto in questa fase che tutti i nutrimenti rimasti vengono concentrati e persi dedicandoli alla crescita di questi fiori e facendo morire di inedia il nostro agave – e di sete tutti noi perché, di conseguenza, impossibilitati a produrre il nostro nettare in assenza di materia prima- .
· · · Intervallo · · ·
Fossimo davvero in tv sarebbe il momento giusto per lanciare un breve spot, anche perché la concentrazione comincia a calare dopo tutte queste definizioni. Concediamoci allora solo un piccolo intermezzo a forma di domanda (question time) :
Cosa fare per evitare il “calo degli zuccheri”? – della pianta, non nostro! –
Se il nostro scopo è poter avere qualcosa da fermentare, è ovvio che bisogna giocare d’anticipo evitando che si consumi tutta la materia prima. Dovremo quindi trovare il modo di agire prima che il fiore vada in maturazione.
(un piccolo spoiler anche per la parte successiva).
· · · Fine intervallo · · ·
Torniamo adesso indietro e “riportiamo in vita” il nostro maguey che, nel corso del tempo, ha saputo propagarsi copiosamente riuscendo “ad attrezzarsi” per crescere in tanti e svariati tipi di ambiente. Grazie alle sue ampie capacità di adattamento, possiamo ritrovarlo sia nelle pianure terrose che nelle basse vallate verdi e alberate, così come nelle alte montagne rocciose.
Possiamo asserire che cresca un po’ dappertutto ma, pretendendo precisione, il suo sviluppo migliore si ha sugli altipiani pianeggianti, dai 300 ai 3000 metri, ricchi di fertili terreni alluvionali. Da diverso habitat nasce – ovviamente – un diverso “format plantare” ma sempre secondo lo schema base specificato sopra.
Nata e cresciuta spontaneamente nei secoli, l’agave è oggi diventata, per buona parte, anche facilmente coltivabile e dicono esserci ben 60 differenti usi delle varie parti della pianta con i quali si possono coprire il 35% dei bisogni umani:
- con le foglie si possono costruire tetti delle abitazioni o improvvisare piatti per il cibo;
- le spine apicali sostituiscono aghi e chiodi;
- gli steli delle infiorescenze possono fare da travi e telai oltre che essere dolci dessert per l’alimentazione;
- con le fibre delle pigne si intrecciano corde e funi;
- la polpa è ingrediente di marmellata e miele;
- dagli zuccheri della pigna servono per distillare il pulque e il mezcal;
- con il bagasso, fibra residua della fermentazione, si ottengono carta e mattoni.
La pianta ha inoltre un ottimo impatto per evitare l’erosione dei terreni e può servire a marcare i confini territoriali delle varie palenque.
Studiando i processi riproduttivi naturali si sono così potuti ricavare vari metodi per ottenere una crescita mirata e controllata:
- dai fiori che crescono sulla sommità si ricavano grandi quantità di semi, che anziché lasciar disperdere nell’aria si possono raccogliere e interrare a piacimento;
- si possono prendere i rizomi che crescono spontaneamente sulla parte vegetativa oppure i piccoli bulbi che si “staccano” dalla pianta madre e crescono nel terreno immediatamente circostante, quasi in simbiosi.
Non è al momento molto diffuso lo studio di incroci, siamo pur sempre in zone rurali, ma ci sono molti studi ed esperimenti sulla possibilità di uscire dall’habitat originale della specie per verificare la sua possibile miglior resistenza, adattamento ed evoluzione in nuovi e diversi territori.
Dal punto di vista pratico, pur essendo piante con ciclo vegetativo lungo, è importante tenerle in ambienti curati e controllati (non necessariamente serre) solo per i primi due anni di vita, per proteggerle da parassiti e predatori e dove poter gestire correttamente la miglior quantità di acqua necessaria alla loro crescita.
Passato questo periodo la pianta si può ritenere ormai formata e può essere trasferita in grandi campi aperti, dove la manutenzione diventa più semplice e richiede ben poche attenzioni. Basta togliere regolarmente le erbacce infestanti, provvedere a qualche irrigazione solo in caso di prolungata siccità ed eventualmente fare piccoli interventi di potatura per migliorare la forma e favorire la aerazione.
Molto interessante è che per queste coltivazioni possono essere utilizzate zone e terreni in cui sarebbe impossibile coltivare altro, favorendo così il già citato concetto di ecosostenibilità, in quanto non si va a sostituire altri tipi di produzione alimentare.
Inoltre è una attività con cui si favorisce la creazione di posti di lavoro, spesso mediante la costituzione di consorzi rurali, con operatività regolamentata a livello centrale.
Ulteriore bonus è che aumentando le coltivazioni aumenta di conseguenza la disponibilità di materia prima e non c’è quindi bisogno di andare a utilizzare in maniera indiscriminata tutte le altre specie selvatiche, aventi numeri decisamente inferiori, evitando di portarle verso il pericoloso limite della estinzione.
Queste specie, utilizzate per ottenere prodotti dalle diverse sfumature sensoriali, possono così continuare a sopravvivere e si può cercare di favorire per quanto possibile la loro riproduzione nei terreni di origine.
Qualche varietà
Nonostante la proliferazione di specie diverse, oltre i tre quarti della produzione del mezcal proviene dall’utilizzo della varietà Espadin, la più facilmente coltivabile, quella con migliori rese e (soprattutto) con un ciclo di vita più breve perché matura ed è pronta all’uso in (si fa per dire) soli 6/8 anni.
Capite bene che: mettere a dimora una pianta che necessita di una ventina di anni per crescere e che si rischia di far distillare ai propri eredi è, in confronto, un must niente male!
Per quanto i sentori che derivino dall’Espadin si possano presumere “standardizzati” e sono famosi perché danno risultati molto armonici e privi di asperità fornendo la porta di ingresso al mondo del Mezcal, basta variare la mano del produttore e diversificare tempi e modalità di lavorazione per ottenere dei risultati anche diversi e quasi in contrasto tra loro a seconda della scelta di far predominare il verde vegetale sulla parte fruttata oppure lasciare che l’affumicato vinca su tutto.
Le altre specie forniscono nel loro piccolo risultati più omogenei tra di loro, la materia prima spesso prevale su tutto il resto.
La varietà Tobalà dà solitamente dei sapori molto pieni e persistenti su note floreali e molto fruttate. Ne escono solitamente mezcal facili e scorrevoli da bere.
Vi segnalo poi quelli da Arroqueño: più selvatici, “bananosi”, con un distinguibile pizzico pepato e con aromi viranti sull’arrostito.
Una panoramica che potremmo allargare a oltre una decina di varietà d’agave ma che non ha senso sviluppare qui e adesso. Magari un giorno ci dedicheremo un articolo specifico con tanto di assaggi, per adesso fermiamoci qui (che di cose ne abbiamo scritte e lette a sufficienza) dandoci appuntamento a brevissimo per parlare sinteticamente di… raccolta (e magari ci aggiungiamo la recensione di un mezcal buono), ok? Vi aspetto.
Adios y ¡arriba el Mezcal! siempre.
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fonte: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal
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