Signorile emblema di Montespertoli e del Vin Santo toscano, Castello Sonnino è cultura e visione moderna del fare vino
Che narrazione può esserci dopo una visita a Castello Sonnino? Approccio il racconto con ciò che più mi ha colpita dell’intera esperienza: l’aristocrazia – che non è solo nell’araldica nobiliare o nel lusso del proprietario terriero da soap opera.
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Qui l’aristocrazia è nell’eleganza, che forse è la parola più adatta, rilevata anche dalla Maison Gucci, con la quale l’azienda ha sviluppato una partnership. E pensare che Montespertoli, la sottozona del Chianti DOCG più piccola che fu fortemente voluta dal Barone Alessandro De Renzis Sonnino, era conosciuta soprattutto per la cantina sociale che invece è la più grande della Toscana e un’importante realtà socio-politico-economica.
Ma sarà bene cominciare dall’inizio di questa esperienza, ovvero dal benvenuto che un giovane uomo dai capelli rossi e dai modi educati ci riserva al nostro arrivo (si rivelerà poi un poliglotta globetrotter con la passione per gli orologi di pregio): Leone De Renzis Sonnino, il quale ci guida senza indugio alla vinsantaia, un sottotetto molto ampio dalla metratura vasta quanto la pianta del castello.
Questa è una delle poche vinsantaie ancora attive così come sono nate, con l’apposito scopo, circa 500 anni fa. Da lassù, la vista sui possedimenti della proprietà si spinge oltre colline e boschetti, classico paesaggio bucolico della campagna toscana. Nonostante l’uggiosa giornata di pioggia, la luce naturale invade tutti i locali, oscurati solo dove riposano i preziosi caratelli.
La selezione manuale dei migliori grappoli spargoli, raccolti in cassette foderate da foglie di vite, avviene da piante di Trebbiano rosa vecchie più di 70 anni, dalla vigna esposta a nord-est, a 350 metri di distanza dal Castello, in linea d’aria. Del resto, tutte le vigne circondano la proprietà. Il Trebbiano rosa altro non è che Trebbiano toscano che, a piena maturazione, pigmenta alcuni acini più degli altri dandogli, appunto, un colorito rosa intenso: il residuo zuccherino si concentra, ma non perde mai la caratteristica spiccata acidità che lo contraddistingue, vocandolo alle vinificazioni “estreme” e alla distillazione.
Chiedo sfacciatamente il permesso – gentilmente accordato – di assaggiare uno dei preziosissimi acini appassiti: è dolce, succoso e non stucchevole, proprio come si rivelerà l’assaggio del vinsanto. Se ne parla, di questo nettare, durante la visita e ovviamente in degustazione: è sempre stato un mercato difficile, che oggi spinge i produttori ad affinare per brevi periodi e in condizioni forzate, per poter praticare prezzi più bassi e relegare un così nobile prodotto a un complemento di fine pasto, spesso semplice vino aggiunto di zuccheri e fortificato, mistificato da miseri nomi commerciali; oggi i principali mercati ricettivi sono esteri, soprattutto Cina e Giappone.
Un tempo, i mezzadri erano autorizzati alla raccolta dei “penzoli“, tralci di vite con due grappoli da poter appendere fino al loro appassimento (che solitamente si completava durante il Natale, da qui il nome Vin Santo), in modo da concentrare gli zuccheri, e li vinificavano spremendone il poco prezioso succo fino a ottenere un mosto da abbandonare al suo destino in piccoli caratelli in presenza della cosiddetta “madre” (un composto dei residui dei vinsanti precedenti) ricco di lieviti e precursori aromatici molto caratterizzanti e esclusivi; dopo 7 o più anni, durante i quali veniva perduto circa il 30% del prodotto a causa dell’evaporazione ossidativa (detta “la parte degli angeli”), a volte ottenevano aceto ma, quando ne risultava vino dolce, era un giulebbe da offrire agli ospiti d’onore o per santificare le feste e le occasioni speciali.
Uno dei progetti a lungo termine dell’azienda è quello di affinare il vinsanto non solo 7 anni ma 8 o addirittura 9, progetto ambizioso e costoso, da promuovere con la scelta comunicativa dei prodotti di prestigio, probabilmente la strada giusta per confermare sul mercato un’azienda da consolidare sotto la guida del giovane Leone.
Nel degustare oggi il Vin Santo del Chianti 2015 Castello Sonnino, la prima cosa che salta all’occhio è la consistente liquidità ambrata che emana profumi intensi e complessi. La completezza olfattiva, priva dell’invasività di terziari appesantiti dai legni e dagli anni, è balsamica e bilanciata su note di marmellata di arance e le loro scorze, cedro sottospirito, bergamotto e kumquat canditi, frutta secca e disidratata, albicocche sciroppate: espressivo e attraente. L’acidità spiccata modera la dolcezza e ne esalta la sapidità ricordando il gusto del caramello salato; lunga la scia che serba dolci memorie sul palato e nel cuore. Le interessanti potenzialità di abbinamento non tralasciano la tradizionale pasticceria secca ma spaziano anche a preparazioni agrodolci, rinascimentali toscane o di cucina orientale e innovativa, come ha già proposto lo Chef Giulio Picchi abbinandolo a un cioccolatino farcito di paté di fegatino toscano: del resto, tutti i salmi finiscono in gloria.
È sin troppo facile raccontare un’azienda storica come Castello Sonnino con il suo top di gamma. Una delle cose più interessanti è la proiezione verso il futuro dell’intera zona, il vasto grandangolo commerciale e intellettuale che Leone ha acquisito e sviluppato durante la sua “demontespertolizzazione” e la sua formazione personale all’estero.
Il suo progetto è di valorizzare il piccolo e densamente vitato areale di Montespertoli attraverso un’associazione di giovani vignaioli che vuol promuovere il concetto di cru per elevare l’eccellenza delle uve di questo vocatissimo territorio non solo come progetto commerciale, ma anche in quanto il ruolo storico dell’area è sempre stato ben definito. Ciò sarà fattibile grazie alla collaborazione delle aziende stesse con l’amministrazione comunale nel rispetto della già esistente Cantina sociale alla quale numerosi conferitori vendono la loro uva; secondo Leone: Festa del vino (Mostra del Chianti), Cantina Sociale e concetto qualitativo di cru possono benissimo convivere, visto anche che i produttori vinificatori sono solo una ventina.
È proprio questo il punto di forza di questa “rivoluzione montespertoliana“: sarà meno difficile rintracciare i cru di eccellenza sfruttando la possibilità di individuare le caratteristiche della tipologia del vino attraverso i blind tasting che già vedono impegnati produttori e rispettivi enologi in incontri settimanali. Uno dei punti di forza è senza dubbio la dimensione contenuta della denominazione, come dice Leone: «Se la concorrenza è tra venti aziende, sarà meno difficile per tutti che non se fosse tra 500 e più aziende» e lo dice probabilmente riferendosi a quella Toscana che da pochi anni ha riconosciuto 11 sotto-unità geografiche unendo la ricerca della specificità all’operazione commerciale.
È proprio per perseguire queste e altre idee che è nata Montespertoli Revolution, un’associazione di giovani produttori con comuni idee su qualità e sostenibilità, proposta con umiltà alla “vecchia guardia”, che metta in disparte campanilismi e sterili competizioni, per sfruttare tra l’altro il già esistente gemellaggio della città con Epernay e scongiurare la valorizzazione egemonica di una sola grande azienda – e qui Leone cita come esempio Frescobaldi a Rufina – .
Castello Sonnino, con la sua ricchezza di storia, non è solo vino. Infatti la Fondazione Castello Sonnino International Educational Center per la Salvaguardia dell’Ambiente e del Patrimonio Culturale apre le porte del prezioso archivio ai giovani di tutto il mondo, che qui possono consultare reperti storici perfettamente conservati, tomi e scritti del periodo in cui Sidney Sonnino, trisavolo di Leone, è stato Capo del Governo Regio Italiano e, in particolare, Ministro degli Affari Esteri del Regno durante la Prima Guerra Mondiale.
Fra la documentazione e i cimeli socio-politici conservati in originale all’interno dell’archivio, spiccano le testimonianze che riportano alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, organizzata dai paesi vincitori dalla “Grande guerra” e che condusse a una sostanziale ridefinizione dei confini europei.
Il Castello è però anche “casa“, abitata e vissuta dalla famiglia, circondata da 150 ha di cui 40 vitati, 3000 piante di ulivo, coltivazione di grani antichi, orto e frutteto per rifornire a km 0 il ristorante della tenuta, gestito con amore dalla mamma, Baronessa Caterina, che tra l’altro fa parte dell’Associazione Donne del Vino.
Durante la visita della cantina, vero e proprio scrigno medievale costruito su un tratto di strada che collegava Volterra a Firenze, il racconto vira su quando il padre di Leone decise, negli anni Ottanta del secolo scorso, di abitare il Castello e di crescere qui la famiglia. Volendo riprendere in mano la produzione del vino, il barone chiese aiuto a un caro amico, Erik Rotschild, che da Bordeaux gli inviò il suo enologo per una consulenza.
Non appena egli vide la vecchia cantina, suggerì di non toccare né imbiancare i muri: le muffe e i funghi presenti sarebbero stati indispensabili allo sviluppo e maturazione dei vini con un tratto personale e distintivo. In quel periodo, furono i primi nella zona a piantare malbec, con il cru Schiavone (che per adesso non viene più prodotto ma fa parte di quei progetti del futuro prossimo, ovvero realizzare un vino da lungo invecchiamento).
Leone vuol testare sia le proprie abilità che tutte le potenzialità della tenuta, sempre con un occhio attento alle esigenze del mercato ma senza mai snaturare l’area, le capacità produttive e ciò che può dare prestigio all’azienda.
Oggi il mercato vuole vini di beva agile, acidità e struttura elegante, non più vini opulenti tanto di moda nel recente passato, ma è fondamentale mantenere l’identità del territorio; questo vuol dire attenta gestione della vigna (l’azienda pratica una conduzione ecosostenibile, in accordo con i cambiamenti climatici in corso) e della cantina, con adatte macerazioni, follature e soste in legno. In tutto ciò è indispensabile il supporto di Renato Lacini, enologo aziendale dal 2018 ma presente in loco da molto prima. La 2019 è stata la prima annata guidata da Leone, orgoglioso di essere ben allineato alla visione che aveva suo padre, amante dei bordolesi con l’anima toscana. «Bere pensando – dice Leone – tenere la testa accesa mentre si usa la bocca», in modo che tutti i sensi siano sempre all’erta.
La vigna del merlot è stata impiantata nel 1994, subito dopo la nascita di Leone, su terreno di argilla e calcare. Il vitigno ha avuto quindi il tempo di adeguarsi all’ambiente circostante e subirne la toscanità, che si ritrova nel Sanleone, merlot 100% austero e timido, che non vuole consensi immediati, anch’esso alla ricerca della freschezza. Non fa parte della degustazione odierna, ma io sono curiosa e a casa ho stappato una bottiglia dell’annata 2019: un assaggio complesso, ricco di ciliegia matura e dolcissima, amarena sottospirito, rosa appassita e confettura di fragole e lamponi, vaniglia e cannella, scorza d’arancia essiccata, tabacco e cuoio conciato, rinfrescato da note balsamiche, tannini dolci e percezione dell’alcol moderata da acidità e sapidità, per una lunga scia di sapore intenso e elegante.
Tra gli assaggi in batteria, oltre al vinsanto spicca Cantinino 2019, sangiovese in purezza che rammenta, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere nel cuore della Toscana. Quest’ottima annata rivela l’intensa complessità al contatto col cavo orale, quando in bocca esplodono le tradizionali caratteristiche del sangiovese locale: succosa ciliegia durone, fragoline e prugne, viola mammola e spezie dolci ma non stucchevoli che tradiscono il sapiente uso di barrique nuove, di secondo e terzo passaggio. Morbidezza ed equilibrio non oscurano tannini e freschezza, per una sinergia che trova lunga persistenza nelle note fruttate.
Salutiamo il Castello e Leone con la consapevolezza di aver vissuto un incontro ricco di storia, tradizione, senso di famiglia. La visione del futuro di Montespertoli passa da qui, e noi non vediamo l’ora di esserne testimoni.
riproduzione riservata – foto: Paolo Bini e Luisa Tolomei
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