il gattopardo e lo chablis


Il Gattopardo e il mistero dello Chablis

SPIRITI LETTERARI


Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” Chi non conosce questa frase pronunciata nel romanzo Il Gattopardo da Tancredi, nipote del Principe Salina, a sostegno di un trasformismo apparente che non muta l’andamento delle cose?

E mai citazione fu più adatta a descrivere l’anima stessa della lunga e travagliata storia della Sicilia, contribuendo, addirittura, col termine “gattopardesco”, a creare un nuovo lessico nella lingua italiana.


Il Gattopardo è l’opera che ha consacrato nell’Olimpo letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uno degli scrittori più enigmatici e controversi della Letteratura italiana ed europea.

Il volume, che si può definire un romanzo storico, narra le vicende della famiglia Tomasi di Lampedusa incarnata dalla figura del capofamiglia, il Principe Don Fabrizio.

Fa da scenario alla narrazione una Sicilia che, subito dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, si interrogava su quale posizione assumere nella scelta tra il “Borbone” o il “Piemontese”, divisa tra una nobiltà legata alla ormai decaduta ricchezza terriera che mirava a conservare i privilegi acquisiti durante il Regno delle Due Sicilie e la nuova borghesia commerciale che si apprestava a diventare il vero motore economico della società siciliana e che vedeva nell’annessione al Regno del Piemonte nuove opportunità di arricchimento.

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Garibaldi a Palermo – Giovanni Fattori, olio su tela (1860-1861)

Formalmente la scelta venne sancita il 21 ottobre del 1860 quando la Corte Suprema di Giustizia proclamò i risultati del plebiscito svoltosi in Sicilia che assegnava la vittoria dei favorevoli all’“Italia una e indivisibile sotto Vittorio Emanuele Re” col 99,85% dei voti.

Solo 667 siciliani (degli aventi diritto al voto, lo 0,15%) si erano opposti al nuovo corso: tutto era cambiato ma per far sì che tutto rimanesse com’era.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Giuseppe Tomasi nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896. Proveniva dalla nobile famiglia dei Tomasi di Lampedusa, il cui capostipite pare fosse un Thomaso detto “il Leopardo”, comandante della guardia imperiale di Tiberio (derivo queste ed altre notizie sulla famiglia dal bellissimo libro, ormai quasi introvabile, scritto da David Gilmour dal titolo L’ultimo Gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano 2003).

La famiglia Tomasi col passare dei secoli si divise in vari rami. Uno di questi passò ad Ancona e poi dal XII secolo in Toscana, precisamente a Siena, e proprio dall’humus di una Toscana profondamente devota, probabilmente, originò quel fervore religioso, in alcuni casi portato all’eccesso, che caratterizzerà la famiglia Tomasi durante tutta la sua successiva permanenza in Sicilia.


Alla fine dell’Ottocento la nobile famiglia Tomasi versava in gravissime condizioni economiche connesse alla fine della feudalità sancita nel 1812 e al crollo del Regno delle due Sicilie. A tutto questo si devono aggiungere le numerose e mai risolte liti ereditarie tra i discendenti che impedirono di poter liberare, per lunghissimi anni, i beni di famiglia dal sequestro giudiziario intervenuto proprio a causa di questi disaccordi.

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Davide Mauro (CC BY-SA 4.0)

Dopo un’infanzia vissuta secondo le regole tradizionali delle nobili famiglie siciliane tra vita mondana, messe e soggiorni nelle case di villeggiatura, la Prima Guerra Mondiale piombò anche sul giovane Giuseppe che, dopo un addestramento a Messina, venne inviato al fronte in qualità di ufficiale di artiglieria, con grande disappunto della madre, figura fondamentale nella sua educazione e formazione, che ebbe per tutta la vita un’enorme influenza sul figlio.

In seguito alla sconfitta di Caporetto venne fatto prigioniero ma riuscì a fuggire e a tornare a casa.

Gli anni successivi alla fine della Grande Guerra furono costellati dalla profonda disillusione che serpeggiò, come in tanti altri italiani, anche in Giuseppe Tomasi per il modo in cui la classe politica italiana cercava di affrontare le conseguenze disastrose di una vittoria che molti consideravano “mutilata”.


Da qui l’avvicinamento di Giuseppe Tomasi al Fascismo “prima maniera” per poi staccarsene decisamente quando diverrà chiaro che l’Italia stava correndo inevitabilmente verso il baratro.

Disattese definitivamente le ambizioni paterne di laurearsi in Giurisprudenza per affrontare la carriera diplomatica, Giuseppe Tomasi lasciò l’Università e iniziò a mostrare un grande interesse per la Letteratura divenendo un profondo conoscitore di molti autori del panorama letterario italiano ed europeo, passione che durerà fino alla morte sopraggiunta per un male incurabile nel 1957, lontano dalla sua Palermo.


il successo dell’opera postuma

Il Gattopardo, la cui stesura durò circa due anni, fu completato nel 1956. Con l’invio del manoscritto a Elio Vittorini, curatore della collana “I gettoni” presso Einaudi, ebbe inizio l’incredibile e discusso caso letterario legato al Romanzo giudicato dallo stesso Vittorini non adatto alla pubblicazione presso Einaudi e in Mondadori.

Non è certo questa la sede per analizzare i motivi delle due mancate pubblicazioni per le quali Vittorini (insieme ai suoi consulenti che lessero il manoscritto) fu successivamente accusato di non aver capito quale capolavoro avesse avuto tra le mani. Per chi volesse approfondire tutta questa problematica consiglio la lettura del volume di Raffaele Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica, Marsilio 1998.


Per nostra fortuna però, a un anno dalla morte di Giuseppe Tomasi cioè nel 1958, Feltrinelli decise di pubblicare il testo nella collana “I contemporanei”. Fu subito un grande successo editoriale, consacrato dalla vendita in pochi mesi di quasi 250.000 copie.

Nel 1959 vinse il Premio Strega imponendosi con 135 voti sulle opere di due giganti della scrittura: Mario Praz e Pier Paolo Pasolini. Ad oggi è il libro in lingua italiana più letto al mondo.


le citazioni enogastronomiche

Numerose sono le citazioni gastronomiche sparse nel libro: l’ambientazione ne favorisce la narrazione permettendo di attingere allo sterminato bagaglio di ricette e di piatti della cucina siciliana in quel tempo fortemente influenzata da quella francese e quindi in bilico tra la solida tradizione insulare e la raffinatezza della cucina d’Oltralpe.

D’altronde lo stesso Giuseppe Tomasi amava molto stare a tavola; infatti, leggendo attentamente tutti i passi in cui viene citato il cibo, è evidente il trasporto che emerge dalle meticolose descrizioni.


Una delle occasioni culinarie più famose del romanzo è quella che si svolge a Donnafugata quando lo scrittore descrive a meraviglia un “torreggiante Timballo di Maccheroni” che definire sontuoso è poco:

« … Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito.

Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose. Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione.

L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.»


lo Chablis

Scopriamo il vino offerto ai commensali quando la penna dello scrittore si sofferma ancora una volta sulla bellissima Angelica:

«Alla fine del pranzo la conversazione era generale: don Calogero raccontava in pessima lingua ma con intuito sagace alcuni retroscena della conquista garibaldina della provincia; il notaio parlava alla Principessa del villino “fuori città” (cioè a cento metri da Donnafugata) che si faceva costruire; Angelica eccitata dalle luci, dal cibo, dallo chablis, dall’evidente consenso che essa trovava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a Tancredi di narrarle alcuni episodi dei “gloriosi fatti d’arme” di Palermo.»

Viene quindi servito lo Chablis, vino francese che prende il nome dall’omonima città. Se in origine furono i Romani ad introdurre la vite in questa zona, si deve indubbiamente ai monaci, soprattutto ai Cistercensi dell’Abbazia di Pontigny, 15 km a nord di Chablis, l’impianto delle uve chardonnay e un nuovo impulso alla coltivazione della vite.

A parte due importanti rivolgimenti che ne compromisero la produzione e cioè la distruzione di Chablis nel 1568 ad opera degli Ugonotti e le vicende legate alla Rivoluzione Francese, il territorio dello Chablis continuò a produrre vini apprezzatissimi non solo in Francia ma anche e soprattutto in Inghilterra sino alla fine del XIX secolo quando la fillossera si abbatté anche in questo territorio.

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Vigneto in Chablis – Domaine Billaud Simon (CC BY-SA 4.0)

Nel 1938 venne istituita la denominazione AOC Chablis ma è solo a partire dagli inizi degli anni ’60 che finalmente il territorio dello Chablis ricominciò a rinascere fino ad arrivare ad essere, ad oggi, una delle più straordinarie espressioni dello Chardonnay a livello mondiale con circa 5600 ettari di vigneti divisi in 4 denominazioni posti nella zona più a nord della Borgogna.

Tornando al pranzo presso Donnafugata, qualcuno ha notato come un’incongruenza l’abbinamento di un vino bianco col piatto proposto. Lo stesso Luchino Visconti si era accorto di questa presunta svista e nel film dedicato al Gattopardo fa brindare Angelica e Tancredi col vino rosso.

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scena da “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963)

Anche ultimamente, un articolo del “Corriere della Sera” del 5 agosto 2015 torna sull’argomento riportando la cronaca di un dialogo pubblico in cui lo stesso figlio dello scrittore, Gioacchino Lanza Tomasi, risolve il mistero fornendo la più semplice delle motivazioni:

«Mio padre non ne capiva niente [di vino] perché era astemio. Sapeva mangiare bene ma beveva acqua».

Indubbiamente l’autorevolezza della fonte è fuori discussione e quindi la spiegazione è sicuramente attendibile. In ogni caso, la personalità dello scrittore, attentissimo ad ogni particolare narrativo, e il suo rigore nella stesura del testo, mi portano a nutrire qualche dubbio e a cercare ulteriori elementi per comprendere se davvero sia possibile che Giuseppe Tomasi abbia citato un vino senza aver meditato su questa scelta.

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scena da “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963)

Intanto, mi permetto di dire che non trovo per niente scandaloso l’abbinamento di uno Chablis con questo piatto reso “fragrante” da note di zucchero e cannella, che richiamano la tradizione araba, anche perché parliamo di uno Chablis prefillossera della metà del 1800, ben lungi quindi dal profilo che il vino ha oggi.

Inoltre, bisogna considerare, come nota storica, che da molti secoli lo Chablis godeva di alta considerazione in Inghilterra (anche oggi l’isola britannica è il paese in cui lo Chablis è più esportato) e sappiamo che Giuseppe Tomasi era molto legato all’Inghilterra e alla letteratura inglese.

Quindi io credo che non sia stata una scelta casuale bensì legata ai molti anni passati in Gran Bretagna dove lo scrittore avrà sicuramente sentito parlare dello Chablis come di un vino prestigioso ed elegante, all’altezza quindi di un pranzo offerto dalla famiglia Tomasi di Lampedusa.


D’altronde da profondo conoscitore della letteratura inglese non gli sarà sfuggita la citazione dello Chablis in una strofa delle poesie di Robert Browning, il grande poeta e drammaturgo britannico vissuto quasi per tutto l’arco dell’Ottocento:

Then I went indoor, brought out a loaf
Half a cheese and a bottle of Chablis,
Lay on the grass and forgot the oaf,
Over a jolly chapter of Rabelais.

(Sibrandus Schafnaburgensis)


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Quindi seguendo l’illuminante citazione che si trova sempre nel Gattopardo:

«In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve»

io consiglierei di non fermarsi solo ad un primo livello della lettura del testo anche per quanto riguarda la citazione del vino Chablis.


Riportando, per chiari motivi, la copertina dell’edizione pubblicata in Milano da Feltrinelli nel 2013 vi lascio pertanto con un’ulteriore e definitiva riflessione: Il Gattopardo ha davvero molti piani di lettura ricchi di allusioni e di formularità, alcuni dei quali messi in luce da Salvatore Nigro nel suo libro Il Principe fulvo, Sellerio, Palermo 2012: uno di questi è inquietante e sorprendente.


Ad un certo punto durante un colloquio con Aimone Chavalley di Monterzuolo, segretario della Prefettura, il Principe ribatte:

«… dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene».

A chi si riferisce l’autore, all’arrivo dei Piemontesi? Forse. Ma se si riflette sul fatto che Giuseppe Tomasi, nel suo romanzo, fa morire il Principe a luglio del 1883 e cioè lo stesso mese ed anno della nascita di Benito Mussolini allora la risposta potrebbe essere ben diversa.


Ancora una volta stava per cambiare tutto perché tutto rimanesse com’era.


prendete appunto:

l’operaIl Gattopardo
l’autoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa
la bevandaVino
consigliato ai cultori alcolici?

[1*: anche no… [2*: volendo… [3*: consigliato
[4*: altamente consigliato [5*: must!

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consigliato agli astemi?

[1*: anche no… [2*: volendo… [3*: consigliato
[4*: altamente consigliato [5*: must!

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