Il primo frutto di una visione pura e innovativa: Ai confini del bosco 2007 Mulini di Segalari, custodi della natura e della biodiversità in Bolgheri.
EMOZIONI D’ANNATA (dove tutto nacque)
Prologo:
questa rubrica, nata da poco, ha i connotati dell’unicità e lo abbiamo già percepito dai primi riscontri. Quando i vini vincono nel calice la sfida del tempo, le emozioni diventano il centro di un cosmo dove il sapore si fonde all’esperienza e all’idealizzazione del mito. E’ il sorso che richiama per astrazione la mano da cui tutto nasce.
[si legge, più o meno, in: 8 minuti]
Ci siamo così posti d’istinto la domanda: «E se stappassimo davanti al produttore?». L’emozione diventerebbe condivisa e, soprattutto, guidata da chi quel vino lo ha saputo concepire.
Emozioni d’annata da oggi sarà anche in versione “dove tutto nacque” e Bernardo Coresi si recato per noi a Bolgheri ad assaggiare la prima etichetta uscita da un’azienda che, all’inizio del nuovo millennio, seppe portare aria più fresca e fare un vino fuori dai canoni di allora… buona lettura.
[la redazione]
Il segreto di Segalari
Ci sono luoghi disseminati per il mondo che conservano in loro una stilla di magia, luoghi molto spesso nascosti, difficili da immaginare se non vengono cercati con attenzione. Questi angoli di magia racchiudono in loro un segreto che non può essere pronunciato se non con la leggerezza di un sussurro altrimenti svanirebbe.
Per Emozioni d’annata voglio invitarvi a seguirmi in un viaggio fatto di vino e natura, di anima e materia, di storia e di futuro. Un tuffo in una realtà che è allo stesso tempo in antitesi rispetto a quelle del luogo in cui si trova e più fulgida espressione.
Siamo a Bolgheri, in una delle più conosciute e apprezzate aree di produzione per l’enologia italiana, alla scoperta di una realtà che racchiude in sé tale segreto di cui ne è custode e guardiana.
Ad accompagnare l’intervista che ci hanno regalato Marina ed Emilio, creatori di Mulini di Segalari, ci sarà, come d’uopo, una grande bottiglia che ho avuto la fortuna di assaggiare nello stesso posto dov’è nata.
Mulini di Segalari: genesi
Ai confini del bosco 2007 è stata la prima bottiglia nata della cantina, un blend composto da 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 10% Petit Verdot e 10% Syrah che ha segnato un punto di svolta nel panorama bolgherese, fornendo la dimostrazione tangibile (e con l’apertura di oggi, a distanza di sedici anni, forse più di allora) che un’altra strada è possibile.
Stavolta, a differenza del solito, prima di raccontarvi del vino lasciamo la parola a chi questa magia l’ha creata, con una sorta di intervista “question & answer” da leggere con calma, in un momento di distensione e, magari, vicino a un calice di qualità.
Accomodato a sedere, la prima domanda è stata inevitabile: «Cos’è Mulini di Segalari?». Ha iniziato Marina:
M. “Mulini di Segalari è un’idea di vita insieme nel mondo del vino. Io e mio marito abbiamo sempre lavorato separatamente ma un’idea che avevamo sin da giovani era quella di passare l’ultima parte dell’esistenza insieme in una vigna. In una vigna perché ci piace il vino, perché volevamo capire più profondamente il legame tra il vino e il territorio.
Capire in che maniera il vino è suscettibile, viene condizionato dalla presenza di un terreno più o meno ricco, più o meno interessante. Ovviamente tutto questo presuppone che poi tu alleva le vigne in modo naturale, senza tante concimazioni costringendo le vigne a scendere in profondità e a nutrirsi dal sole.
Io ho fatto l’architetto per 25 anni e mi ero un pochino annoiata tra la burocrazia, la crisi edilizia e così via, allora ho detto a mio marito: io avrei tempo, se vuoi ci mettiamo a cercare del terreno, ci mettiamo a piantare le vigne, a restaurare gli edifici (perché non è che una famiglia normale può pensare di comprare un’azienda agricola già fatta, l’unica possibilità è quella di partire piano piano), e così abbiamo fatto senza pensare alla gravità, all’impegno, alla difficoltà.
Siamo stati fortunati, abbiamo azzeccato un luogo particolarissimo, non solo per la vocazione a produrre vini ma anche per l’aspetto di questo luogo, questa grande natura, questo corso d’acqua pieno di grandi alberi, il bosco vicino: una zona di Bolgheri segreta, molto sconosciuta e che in qualche maniera incuriosisce l’amante del vino”.
Da appassionato e cultore vi dico: a Mulini di Segalari la prima impressione che si riceve, prima ancora di bere o anche solo di vedere una bottiglia, è che sia probabilmente l’unica azienda in Bolgheri che non ti si concede subito, che non brama notorietà frivola ma che racchiude in sé l’essenza dell’essere.
È quasi come se fosse necessario fare un percorso, un percorso che ideologicamente è quasi una sorta di purificazione interiore. Questa sensazione pervade chiaramente chiunque abbia la fortuna di mettersi in cammino per venire a contatto con l’azienda creata da Marina ed Emilio in un fazzoletto di terra che rimane nascosto agli occhi, ma parla all’anima e che volutamente rimane al di fuori delle rotte segnate sulle carte.
Per arrivare qui si è costretti a immergersi nella natura, a scavare in profondità nell’inconscio, a entrare in contatto con una dimensione che non solo è pressoché sconosciuta ai più, ma che è anche estremamente difficile da trovare nelle visite alla maggior parte delle cantine.
A Mulini di Segalari, come ci confessa Marina, chi produce i prodotti regalati da madre natura non è che il custode di quel luogo incantato e come tale si assume l’onere e l’onore di curarlo, preservarlo, e possibilmente migliorarlo:
M. “All’epoca scegliemmo Bolgheri perché rappresentava una sfida, un modo di fare il vino ad alto livello e iniziare subito con un passo lungo che ti mette alla prova perché… non è che puoi fare un “vinello” ma devi fare un bel vino e stare all’altezza dei produttori di Bolgheri che sono tutti super professionali.
Questo non toglie che poi ognuno possa avere un’idea diversa del vino e questo è anche bello perché la biodiversità nei vigneron e nei vignaioli è la cosa che ci vuole di più perché l’interpretazione è sempre importante”.
Filosofia e concetto
Mi fermo allora proprio su questo: «Secondo te, vigneron e vignaioli sono sinonimi?»
M. “No, a me piace molto di più vignaiolo. Vignaiolo è un termine che ti fa capire che la persona è il tutore di questo luogo, è la persona che si prende cura di un pezzo di terra dove c’è il vigneto ma dove ci deve essere anche un contorno da tener presente perché segna il vino, lo identifica.
Questo uso del termine vigneron è un pochino di moda forse perché ti avvicina alla cultura francese che, niente da dire, rimane una cultura interessantissima.I francesi sono bravi col vino sia farlo che a commercializzarlo ma dei francesi a me piace soprattutto il concetto del piccolo produttore: sono tantissime le piccole parcelle che dimostrano quanta affezione ci sia verso la piccola dimensione che qui, in Italia, non si sente troppo. Solo nella Fivi, nei vignaioli indipendenti, respiri questo valore”.
«E voi siete in questa dimensione…»
M. “Sì, noi abbiamo scelto questo luogo anche perché pretendiamo che chi vuole venire da noi per assaggiare i vini debba cercarci, scoprirci e avere voglia di trovare qualcosa di diverso dal mercato di Bolgheri.
Specialmente se sei piccolo, ti interessa essere unico, speciale, particolare, non solo per il modo di allevare le vigne, ma anche per l’impatto, per la relazione umana, per la voglia di mantenere una ricchezza che abbiamo trovato e incrementarla nella biodiversità, nella qualità del verde, nel concedere e nell’offrire a chi arriva a bere del vino anche un tuffo nella natura ancora completamente intatta. Questa, quindi, è una gran cosa.”
«C’è anche qualcosa di spirituale in tutto questo?»
M. “Eh sì, secondo me il vino avvicina molto a una sorta di benessere dell’anima. Cioè, in qualche maniera, non si parla solo di lavorare ma di riuscire a stare in un vigneto, guardare le vigne, seguirle, potarle, fare la vendemmia. Ti avvicina come persona, come quello che è successo a me, ti avvicina molto di più a godersi la vita, a scoprire un ritmo naturale, non frenetico, avere la pazienza di aspettare la stagione, la pioggia, il sole, il vento, dove gli effetti della natura sono talmente importanti che tu non ne puoi prescindere, devi stare lì a vedere cosa succede, devi assisterli in maniera precisa.”
«Ti faccio una domanda un po’ provocatoria, e la faccio a te in quanto “portatrice sana” di vino biodinamico; quanto ha influito negli ultimi anni la moda del vino “naturale“?»
M. “Io non parlerei di moda, sinceramente voglio pensare, perché io sono una persona ottimista e positiva, che il consumatore abbia una coscienza diversa da dieci anni fa. Voglio pensare che il consumatore non solo sceglie un vino perché è biologico, perché ha meno solfiti o perché è naturale e non ci sono residui chimici, ma anche perché viene fatto in modo da tutelare l’ambiente.
Qui da noi ci portano i bambini, i genitori bevono il vino, i bambini disegnano con le matite e nel frattempo vedono che si può fare il vino di alta qualità in un luogo che rispetta a pieno la natura. Moda secondo me è un termine abbastanza negativo perché fa capire che è qualcosa di effimero, qualcosa di temporaneo non solo nel mondo del vino ma nel mondo dell’alimentazione in generale, si sta cercando di capire il prodotto dall’origine, la lavorazione e la qualità perché lo devi consumare e nutre spirito e corpo, non lo prendi così alla leggera ma come un qualcosa che ti deve arricchire.”
«Biodinamico nel vostro caso è un punto di partenza o di arrivo?»
M.“Noi siamo partiti con un piede convenzionale, io mi sono subito inorridita e ho chiesto a Emilio di andare avanti solo col biologico, quindi abbiamo poi convertito l’azienda in biologico immediatamente. Il biodinamico è stata una conquista lunga durata sei anni: non è un’etichetta che ci si mette sulla fronte e non è una scelta che fai per moda perché è più facile vendere un vino, magari anche puzzolente. il problema del biodinamico nel vino è che il 90% dei vini biodinamici non sono ancora perfetti.
Non voglio dire che il vino deve essere perfetto per forza, perché siamo umani però non sono d’accordo sul giustificare un odorino naturale che non è un vero profumo. Il vino deve essere comunque corretto, poi può essere biologico, biodinamico, naturale o quello che vuoi.”
«Biodinamico, quindi, non può andare d’accordo con banalizzazione…»
M. “No, assolutamente no. Prima di tutto devi avere una conoscenza dell’enologia molto maggiore che nel convenzionale, perché tu non hai niente che ti possa aiutare a ritoccare il vino se non ti viene bene, deve quindi venire bene una volta per tutte.
Per convincere mio marito, che è l’enologo dell’azienda, a fare una fermentazione naturale, noi abbiamo cominciato nel 2012 su – me lo indica – questo campetto di merlot, dividendolo in due, lui ha usato i suoi lieviti biologici selezionati, io non ho usato nulla.Abbiamo assaggiato i vini, era sempre lo stesso vitigno, ma i vini erano diversi, perché il vino naturale era molto più complesso, intrigante, curioso, dinamico, si evolveva nel bicchiere, mentre l’altro era un pochino più statico. L’anno dopo lui stesso, dopo 9 mesi praticamente di gestazione, mi ha detto che quell’anno si sarebbe potuto provare a fare la fermentazione naturale.
E questo è stato l’inizio.
Abbiamo atteso cinque anni per assaggiare i vini biodinamici del 2013 e, alla fine nel 2017, abbiamo poi chiesto la certificazione perché lui era convinto che si poteva gestire la fermentazione naturale. La fermentazione naturale è il nocciolo! Prima di tutto deve avere tanti buoni lieviti nella vigna, quindi un alto livello di biologia, se spruzzi “roba”, allora… ciao, non c’è più nulla!
Quale futuro?
Marina ha grandi capacità comunicative che riescono a trasmettere in maniera esemplare questa passione smisurata per la propria attività. La fermo un attimo e, troppo curioso della risposta, ritorno sulla domanda di pochi minuti prima… «Ma, quindi, il biodinamico per voi è più un punto di partenza?»
È sicuramente una partenza! Dobbiamo capire quali lieviti abbiamo in vigna e servirà un’università che possa seguirmi. Al limite potremmo poi eliminare dalla flora complessiva quei lieviti che non sono positivi nella fermentazione e, quindi, fare dei selezionati sui tuoi indigeni. Questo potrebbe avere senso, lo sviluppo nella nostra biodinamica seguirà il nostro approccio del tempo.
Noi abbiamo già una stazione meteorologica e due anni dopo che abbiamo fatto la certificazione biodinamica abbiamo iniziato a fare le mappature con il drone per dividere i vigneti in tre zone per raccogliere e fare la vendemmia in zone omogenee, cioè dove la produzione è fino a sei grappoli, poi da 6 a 12 grappoli, oltre 12 grappoli. Dove ci sono più grappoli si fanno più passaggi perché le uve devono tutte maturare al meglio.
L’approccio biodinamico ci ha pure convinto a utilizzare la tecnologia, l’evoluzione in agricoltura dei sistemi di sensori, di foto con la camera infrarossi e così via… per fare una scelta di qualità direttamente in vendemmia e questo ci ha portato un balzo proprio nella qualità del prodotto finale.
Quindi anche se siamo piccoli, se anche siamo naturali, biologici, biodinamici ben venga la tecnologia. Stiamo facendo ricerche con l’Università degli studi di Firenze, con Agrobit, con il CNR per il ratio variabile; noi puntiamo all’evoluzione di questo aspetto in agricoltura, è il nostro futuro.”
«Nel cliente finale permane ancora un po’ l’idea che il vino biologico o biodinamico sia quello fatto dal nonno in cantina come una volta. Come si comunica che vino biodinamico è un vino che comunque ricerca uno studio, anche scientifico?»
M. “La gente rimane esterrefatta quando viene da me e vede quest’ambiente naturale ma ascolta anche della stazione meteo, del drone e di altro… io devo parlare dei miei vini, devo quindi parlare della qualità e dell’origine. Qualcuno rimane quasi costernato, deluso, mi dicono: «Ma come… ma non dovete essere naturali?»
Certo! Ma non è mica vietato usare la tecnologia! Anzi è proprio questa naturalezza che ci impone di usarla per essere più precisi, più determinati a scegliere le zone, la biodiversità esiste anche all’interno di uno stesso vigneto. Non si può dire “è tutto Superiore, faccio solo Superiore”! Nello stesso vigneto ci sono piante più belle o più ricche di altre, tutto fa parte di una biodiversità da scoprire e saper gestire.
Quindi stupisce molto alla gente di capire che l’approccio naturale può essere un approccio tecnologico.
Però è anche bene che la gente capisca che l’agricoltore non è solo un contadino rozzo o poco istruito, l’agricoltura di alto e altissimo livello livello è fatta di preparazione, formazione e tecnologia, quindi a me il concetto piace non solo dirlo ma anche condividerlo con i miei consumatori.
Ritengo che l’evoluzione tecnologica rappresenti un po’ il riscatto della biodinamica in senso lato”.
«Stando al tuo ragionamento, possiamo quindi affermare che essere biodinamici significa voler scegliere?»
M. “Secondo me sì, anche soltanto essendo biologici. Non voglio essere restrittiva, serve un’evoluzione nell’agricoltura, ci vuole un passaggio. Chi è convenzionale deve diventare sostenibile e dovrebbe poi fare un altro passo verso il biologico. Non è un processo che si impone in un “balletto”, in natura ci vogliono lustri per fare un passo, almeno cinque anni, quanto ci abbiamo messo noi da biologico a diventare biodinamici! L’importante è non sedersi, anche perché le condizioni climatiche ti impongono di stare allerta. Tutto quello che fai in un anno, poi devi rivederlo l’anno dopo.”
«In quest’ottica, qual è la necessità di risposta che deve dare un’azienda vitivinicola ai cambiamenti climatici?»
M. “Il cambiamento climatico è veramente un gran problema in agricoltura. Non solo per le precipitazioni ma per l’estrema variabilità delle temperature. Negli inverni miti la vegetazione inizia presto a fiorire ma può essere sorpresa dal freddo che arriva improvviso e che, fra le altre, ferma l’attivita degli insetti nell’impollinazione dei fiori e così via. Senza poi dimenticare del problema siccità e dello stress causato alle piante che devono necessariamente evolversi resistendeo nel nostro ambiente.
Dal 2010 concimiamo molto meno, dal 2008 facciamo il sovescio che è una concimazione indiretta. Concimare meno e mantenere l’inerbimento significa preservare l’umidità e la vita nella terra. Se la lavori, la vita non c’è e la terra si riscalda prima. Concimando, si nutrono le radici della pianta per i primi 30 cm di terra ed è chiaro che, se non piove per 40 giorni, quello strato si seccherà mandando la pianta in stress fino quasi a morire perché non trova acqua, perché non è abituata a scendere in profondità.
Concimare poco, solo quando davvero occorre, fa sì che la pianta scenda in profondità e di anno in anno aumenti la sua resilienza, la sua capacità di resistere a questi sbalzi climatici di umidità e di siccità.”
Mi sposto ancora più nel futuro: «È sufficiente accompagnare le piante in questa trasformazione oppure può esserci anche il rischio di dover cambiare vite o vitigno?»
M. “Non è un rischio ma sarà una necessità. È chiaro che se tu hai già piantato un vigneto le radici sono quelle e quindi terrai conto di un portainnesto che resista meglio alla siccità e che magari non produca troppa vegetazione e non generi troppa muffa. Nel tempo dovremo pensare di ricorrere a varietà più resistenti. Io sono già diversi anni che penso ai PIWI che sono varietà resistenti e autorizzate in Italia per il vino da tavola.
Noi siamo a Bolgheri e nella Doc Bolgheri probabilmente non entreranno mai o perlomeno non nei prossimi 20 anni. Forse, più facilmente, negli IGT ma in Toscana al momento non sono ammessi. Dove sono ammessi stanno dando ottimi risultati e penso che, probabilmente, tra le vigne che pianterò l’anno prossimo ci metterò anche qualche PIWI per fare un vino extra DOC.Lo venderò come IGT ma almeno è un segno; è un segnale, è un messaggio e i miei amici produttori assaggeranno il mio vino e se diranno che fa schifo va bene, allora nessuno pianterà PIWI, ma potrebbe benissimo essere che invece si possano sensibilizzare a varietà che pretendono meno trattamenti, perché c’è anche il problema del rame che noi dobbiamo abbandonare, quindi bene o male bisogna ricorrere a un’impostazione nuova o nelle piante o nella difesa.”
Sarà quantomeno un segnale, un messaggio anche per gli amici produttori: potrà non piacere ma potrebbe benissimo essere l’inizio di una nouva era verso varietà che richiedono meno trattamenti e meno rame”.
In un turbinio di emozioni e pensieri, di riflessioni sul passato e sul futuro arriviamo insieme al momento della bottiglia che durante la nostra chiacchierata è rimasta in attesa sul grande tavolo della sala degustazione.
Bolgheri DOC Ai confini del bosco 2007: la degustazione
Anche in questo, una domanda è stata d’obbligo: «Cosa ha rappresentato questo vino allora e cosa rappresenta oggi?». Mi risponde Emilio, marito ed enologo.
E. “Ha rappresentato l’inizio dell’avventura, il primo vino prodotto con le nostre giovani vigne e l’emozione di fare una vendemmia differenziando la raccolta e poi facendo il blend dopo qualche mese cercando di capire com’era il Merlot, com’era il Cabernet Sauvignon, com’era il Petit Verdot, com’era il Syrah e facendo uno studio sull’assemblaggio.
Era la nostra prima impostazione, la nostra prima uscita già caratterizzata dalla scelta delle botti grandi e delle fermentazioni non troppo lunghe, delle macerazioni non troppo accentuate, di temperature non troppo alte perché noi si è sempre vinificato all’aperto e a ottobre la notte fa freddo e le temperature si abbassano.
La scommessa di 17 anni fa fu quella di fare un Bolgheri che fosse diverso dagli altri, come lo è tuttora. Adesso non siamo più soli su questa filosofia ma allora era una prima volta in tutto e per tutto.”
Vista la grande disponibilità di Emilio e di Marina non potevo farmi scappare l’occasione di far descrivere a loro stessi il loro primo nato.
Per quanto mi riguarda, mi limito oggi al colore e poco altro: un rubino ancora estremamente vivo che tradisce i suoi anni, i riflessi granata iniziano a intravedersi ma nulla tolgono alla vitalità del tono, alla sua sfumatura armonica. La luce lo attraversava sinuosa come danza su una musica ancestrale e dimenticata, una danza propiziatoria alla vita. Al naso i profumi sono arrivati nitidi e diretti, mantenendo una pulizia invidiabile e in concerto l’uno con l’altro.
Per Marina:
M. ”Frutto scuro; cassis, mora di rovo, gelso; ci sento subito anche la macchia, la nostra macchia mediterranea; il ginepro, il mirto, l’alloro. Poi comincio a sentirci anche le spezie, un po’ di cannella, chiodi di garofano; si sentono già anche note leggermente ematiche e si sente un po’ di ferro. Note sicuramente più sulla riduzione che sull’ossidazione ed è incredibile dopo tutti questi anni che siano così nette le note più fresche, più mentolate. Si sente un po’ di legno anche se non è predominante.
Colpisce molto la struttura floreale che non tende all’appassimento, alla macerazione: la sento ancora fragrante, vibrante come un bouquet, un po’ di rosa, un po’ di garofano. Sento poi la liquirizia, il sottobosco, il cuoio. La cosa bella è che cambia, reagisce con l’ossigeno, danza con l’ossigeno, vivo.”
In bocca invece?
M. “in bocca stupisce prima di tutto la freschezza, la croccantezza ancora di questo vino che ha già 16 anni ma ancora molto vivace, assolutamente non seduto, ancora molto energico. In bocca rimane molto la macchia e il frutto assolutamente non cotto, maturo ma selvatico, ancora un piccolo frutto di bosco ancora attaccato alla pianta.”
In bocca dà, in effetti, più l’idea di essere un vino che ha del vissuto, con una parte tannica che è ben integrata, ben bilanciata, senza spigolosità. Parte piacevolissimo, molto dritto, elevato e spinto in verticale proprio dall’acidità per poi scendere su componenti più vellutate da cui escono le sensazioni di sottobosco, di cuoio e se ne percepisce meglio il corpo e la sua energica struttura.
«Maturazioni non esasperate, ossidazioni non spinte, naturalità e precisione dei sapori; potrebbe essere questa la vostra cifra stilistica?»
M. “Eh sì, è sempre stata questa. Più che l’analisi tecnica noi volevamo fare un vino così, volevamo fare un vino dove le caratteristiche di bevibilità fossero sempre marcate, al contrario dei vini di Bolgheri soprattutto di quegli anni lì.”
«Non trovate che la grossa cassa di risonanza mediatica e di notorietà dei vini di Bolgheri nel mondo tenda a uniformare i prodotti spingendoli verso un canone, una standardizzazione che poi si astrae dalla valorizzazione e del territorio?»
M. “Sì, non a caso abbiamo fatto “Via dal Coro” – nuovo nato dell’azienda, cercatelo, provatelo, bramatelo e, se con un ardito esercizio spirituale ci riuscirete, provate a conservarlo -, lo abbiamo concepito per questo motivo, perché i nostri vini sono sempre stati diversi da tutti gli altri.
«E non è questo, in ottica di qualche decennio, un pericolo per tutta l’area di Bolgheri?»
E. “Occorre ricercare una biodiversità che poi venga trasportata nel calice. Sicuramente c’è una globalizzazione del mercato, è un modo di dare forza a chi il vino lo produce solo per il business, una globalizzazione del gusto.
Noi andiamo avanti per la nostra strada, a noi piace fare il vino che soddisfi prima di tutto noi. È chiaro che la nostra problematica è relativa al quantitativo di bottiglie che è molto piccolo ma riesce comunque a soddisfare chi naturalmente ci apprezza. Noi non potremmo certamente fare un vino “globalizzato”, chiuderemmo l’azienda perché non ci appassionerebbe più.
«Cosa sarà Mulini di Segalari da qui alle prossime cento vendemmie?»
M. “Vorremmo un giorno rendere l’azienda non dipendente da noi, mi farebbe piacere che Mulini raggiungesse un’identità e un assetto sia organizzativo che qualitativo da portare avanti negli anni.
Chi seguirà la nostra azienda in futuro dovrà avere un po’ il nostro modo di pensare e non farne perdere l’identità. L’ideale sarebbe riuscire a impostare una strada da seguire per chi verrà dopo di noi, potrebbero essere i nostri figli, potrebbe essere qualcun altro… chi lo sa?
Noi viviamo la vita giorno per giorno, andiamo avanti perché abbiamo tante cose da fare ancora in azienda”.
«Beh, se parliamo di strada, le scelte che avete fatto sin dall’inizio hanno tracciato una strada chiara…
M. “Quella l’abbiamo tracciata, mantenuta ma anche rafforzata, identificata, ne abbiamo delineato i bordi… tutto ciò che abbiamo fatto lo si ritrova anche nella considerazione dei nostri amici produttori che, seppur piccoli, ci considerano una pedina importante da rispettare”.
Prima di chiudere questa fantastica chiacchierata, fin dall’inizio a metà fra il terreno e lo spirituale, pongo loro un’ultima domanda e un’ultima curiosità prima di lasciarli andare alla loro vendemmia: «Qual è il vostro primo ricordo legato al vino?»
Marina
“Il mio primo ricordo è legato al corso di sommelier, quando ho iniziato a scoprire il vino con un occhio più sistematico, più legato alla cultura e alla conoscenza. Avevamo 20 anni appena e devo dire che, forse, proprio quei tre anni che ho passato studiando e assaggiando il vinomi hanno aperto un mondo
Emilio:
“Il mio primo ricordo del vino è legato ai miei studi: sono laureato in agraria, in economia agraria, però poi sono andato alla Cattolica per fare enologia e ho seguito uno dei primi master italiani con Michele Satta che aveva preso i primi terreni qua.Dopo essere diventato enologo, ho cercato di fare qualcosa di più rivoluzionario come l’enoteca Le Volpi e l’Uva nel centro di Firenze dove l’idea precisa era quella di eliminare i grandi nomi e legare la bottega alla figura del vignaiolo. Non è stato semplice perché i clienti entravano, vedevano vini differenti, “giravano il culo” e se ne andavano via.
Poi abbiamo iniziato in negozio a raccontare maggiormente, facendo capire che dietro a una bottiglia c’è un vignaiolo, c’è una storia, c’è una zona, c’è un terroir e questo a stimolato anche chi, prima di allora, rimaneva scettico”
«Questa cosa poi l’avete riproposta anche qui come ideologia?»
E: “Sì, soprattutto come progetto insieme facendo qualcosa che non fosse un cammino già percorso a Bolgheri. Per evolversi non si può stare fermi, serve che gente nuova si metta a fare qualcosa di nuovo. È anche umano poter dire: «Adesso arrivo io e provo a vedere cosa riesco a combinare, o no?»
Il vino nel calice durante lo scorrere della chiacchierata muta, si evolve. Non rimane mai identico a sé stesso. Escono i terziari, le note speziate; si affievoliscono i frutti e i fiori completano il loro percorso di vita come le stagioni della natura a cui nessuno può sottrarsi. L’ossigeno regala e trasforma, dona vita dal primo all’ultimo respiro.
Rimangono singolari sensazioni di serenità, del quieto scorrere della vita, di crescita e di quella saggezza che solo madre natura può aiutarci a raggiungere. Spero di averle ben trasmesse per trasformarle in vostre, con questo lungo articolo che non meritava ulteriore sintesi, contrazione o elisione alcuna per non correre il rischio di perdersi quel dettaglio che, spesso, sa fare la differenza emozionale.
Da me, da noi, va un ringraziamento finale e speciale a Marina ed Emilio, questi “custodi” di esemplare accoglienza e invito voi gentili lettori, ove possiate, a regalarvi una visita in un luogo fuori dal tempo che cela un segreto così profondo da non poter essere svelato… ma solo vissuto.
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