Legare un vitigno al senso di appartenenza: Sfumature d’Ansonica è stata la riscoperta della tradizione in un calice.
Scrivere di Ansonica è come scrivere del proprio DNA: una condizione endemica, un bagaglio culturale che ci appartiene da sempre. È come se fosse appartenenza a una cultura rurale, il vivere in un paese dove conosci tutti e tutti conoscono te e la tua storia.
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Personalmente sono cresciuto in un paese di(vino) dove, prima dell’avvento dell’onnipresente Vermentino ed altri internazionali a bacca bianca, un vitigno come l’Ansonica trovava il maggior utilizzo come base alla maggior parte dei vini bianchi affianco del Trebbiano e della Malvasia.
Le nuove tendenze, in termini di consumi portano i mercati a prediligere vini dinamici di pronta beva, commercialmente vitali per le aziende produttrici, spesso vinificati in inox, cemento o resina, che molto si allontanano dalla complessità sensoriale così raffinata e decisa dell’Ansonica.
Tutto ciò mi diventa più chiaro quando un “fragore dorato” illumina il cielo plumbeo della città lagunare del monte Argentario, vedendo protagonisti 50 produttori di questo antico ed affascinante varietale.
Non è assolutamente facile riunire sotto un unico fattor comune (il vitigno) così tanti protagonisti della vinificazione. Non lo è doppiamente quando si tratta di un vitigno certamente storico ma che non possiede lo stesso appeal di varietà più note e più “glamour”, quelle uve da cui nascono i grandi rossi o i metoso classico più esclusivi.
A Orbetello, riuniti sotto la sapiente organizzazione dell’ideatore e conoscitore Emiliano Leuti con la collaborazione di AIS Grosseto, c’erano produttori prevalentemente maremmani e dell’Arcipelago toscano ma le “sfumature” di Ansonica sono riuscite ad arrivare anche dalla Sicilia e dalla Calabria.
Ognuno con il proprio stile, ognuno con la propria storia e la propria tradizione alle spalle, ognuno con la propria etichetta come espressione di un contesto peculiare da scoprire per chi non lo ha mai calpestato, per chi non potrà comunque – senza offesa alcuna – capire fino in fondo cosa significa intimamente Ansonica o Insolia.
Ciò che mi ha lasciato realmente entusiasta è stato il percepire la natura territoriale e il rispetto del terroir e, ancor più, la corretta valorizzazione del varietale, spesso vinificato con lieviti indigeni, portando nel calice delle vere ed autentiche espressioni nate dalla cultura storica dei produttori.
Fermentazioni sulle bucce ed affinamenti sulle fecce nobili donano maggior complessità, producendo un importante miglioramento sensoriale con un aumento di grasso, morbidezza e volume.
Nella due giorni di evento è stato possibile confrontarsi ai banchi con i produttori e viversi una vera e propria “maratona” in degustazione guidata, sebbene la migliore opportunità per l’assaggio ragionato sia stata quella riservata alla stampa nell’apposita sala all’interno del museo archeologico della polveriera Guzman dove ho potuto apprezzare molti piccoli capolavori enoici, espressioni territoriali rispettose del vitigno.
Una sessantina di ansonica 100%, già di per sé è un piccolo tesoro di valori peculiari e diventerebbe oltremodo irragionevole stilare una graduatoria di preferenze fra quelli assaggiati che, fra l’altro, nel complesso sono risultati essere di qualità sicuramente alta.
Come però spesso accade, può arrivare quel sorso che riesce a colpirti da un punto di vista emotivo, direi quasi “sentimentale” viste le mie origini, con quelle sensazioni che sanno risvegliarti un qualcosa di atavico fra il ricordo nitido e l’indefinibile e che, in fin dei conti, valorizza e motiva anche la tua presenza in questi contesti.
Quel vino che per colore, profumo e sapore ha la capacità di “accendere” un qualcosa in più e che dai sensi arriva dritto al cuore, come è stato per il Toscana ansonica IGT Indigena 2022 della cantina Il Cerchio, un’ansonica coltivata in regime biologico, vinificata con macerazione e poi affinata in legno.
Vestiva il bevante di un affascinante giallo dorato con riflessi aranciati omogenei, vividi e luminosi che al naso si aprivano con sentori di mela golden matura, pesca a pasta gialla, frutta candita e note agrumate ampliate da camomilla e fieno appena imbiondito dal sole. Un po’ di attesa prima di liberare profumi di zagara e mughetto intrecciati a quelli di miele e caramello chiaro con sbuffi di burro e vanigliati.
Ne ho gradito anche l’estrema corenza all’assaggio: fresco e verticale con rimandi a papaia e melone, mela e miele, in un rapporto acido/sapido perfettamente gestito e dal finale molto persistente.
Una di quelle ansonica capaci di riportarmi indietro nel tempo, quando da ragazzo muovevo i primi passi nel mondo della degustazione, con il suo colore caratteristico, i profumi delle piante e dei fiori di Maremma e quel sapore che sapeva di autentico, di vino vero e di tradizione rurale che appartenevano a una società che oggi rischia di scomparire in questo mondo fatto di troppi passi in avanti e pochissimi passi indietro.
Oggi più che mai, anche nel mondo enoico, diventa essenziale non dimenticare le proprie “radici” …
Le nostre radici ci servono, fosse anche per il gusto di allontanarsene per un periodo. Le nostre radici ci servono per non sentirsi soli, per sapere che nelle tradizioni vitivinicole, nella terra e nelle uve autoctone c’è sempre qualcosa di nostro che in qualche modo ci appartiene e che, quando non ci sei, restano lì ad aspettarti.
foto: Claudio Bovicelli
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