Tre epici esemplari dell’eccellenza francese: Taittinger 1982, Chateau Latour 1984, Romanée Conti 1995. Emozioni in serie.
EMOZIONI D’ANNATA
Cercavamo da tempo qualcuno che sapesse periodicamente condividere con voi qualche assaggio straordinario, quelle etichette definite epiche e che diventano tali nel momento in cui vincono la sfida del tempo e sono frutto di un’esperienza magistrale, riconosciuta e indiscutibile.
[si legge, più o meno, in: 6 minuti]
Non abbiamo mai avuto la pretesa di essere i custodi unici del sapere, né di essere fra i più autorevoli o i più seguiti ma qui si scrive solo se siamo competenti, credibili e scevri da quell’eccessiva, asfissiante autoreferenzialità egocentrica di cui troppe volte trasudano le pagine web e i profili social.
In questo team oggi arriva Bernardo Coresi: “utopista per necessità, assaggiatore per vocazione, scrittore per diletto e giocoliere di parole“. Si definisce lui così, incarnando perfettamente lo spirito della nostra testata e della nostra squadra mettendosi a disposizione con i sensi, con le mani e con il cuore. La cultura enoica si fa ovunque – ci mancherebbe! – ma qui da oggi, con semplicità e senza supponenza, si racconteranno anche delle vere “Emozioni d’annata“, almeno quelle ritenute indimenticabili.
Benvenuto Bernardo e buona lettura a voi (occhio che partiamo col botto)!
[la redazione]
Emozioni d’annata: la notte dei colli mozzati
Prima di iniziare lasciatevi fare una domanda, anche solo per conoscerci, e poi partiamo… Secondo voi: dire di un vino che “è fatto bene“, può lasciarci soddisfatti dell’esperienza? Io personalmente mi tolgo da ogni imbarazzo della risposta e dico no, assolutamente no.
Quante volte in una degustazione, in un assaggio con il produttore, in una presentazione aziendale o ancora nelle migliaia di eventi a tema enologico che costellano il nostro universo si è descritto un vino con la frase “è fatto bene”? Quasi come fosse un modo gentile di elogiare un qualcosa non trovando aggettivi migliori, come fosse una tendenza inconscia a uniformarsi verso il basso.
Questo da solo non può essere bastevole, non può e non deve. Un vino deve stimolare la ricerca delle vere emozioni perché con il vino se ne beve la storia, il terroir, le suggestioni. L’essere “fatto bene” è semplicemente il punto di partenza, imprescindibile, sotto il quale non varrebbe neppure la pena impiegarci tempo e denaro.
Con questa rubrica vorrei umilmente andare a scovare quegli aspetti che ne travalicano la semplice esistenza per trovarne l’essenza. Un viaggio che, grazie alle grandi bottiglie d’annata, prova a creare un rapporto più profondo con il vino, a cercarne l’intima natura, a svelare di come una mera bevanda di consumo e sostentamento quotidiano sia diventata nutrimento per l’anima ancor prima che per il corpo.
Andiamo, vi trasporto subito in Francia…
Ci sono momenti in cui devi lasciare da parte ogni sorta di timore reverenziale per approcciarti alla degustazione con occhi fanciulleschi. Quelle sere in cui la paura della “bottiglia andata” va a braccetto con l’ansia della scoperta.
Protagonisti della serata:
- Taittinger Collection 1982
- Hospice de Beaune 1994
- Château Haut Brion 1984
- Château Margaux 1983
- Château Latour 1984
- Château Mouton Rothschild 1984
- DRC Grands Echezeaux 1995
- un tavolo di amici veri
Partiamo dal dire che tutti i vini messi sul tavolo sono risultati in ottima forma e, viste le annate, già questo sarebbe bastevole per consacrare la serata come unica nel suo genere. Campioni (in tutti i sensi) ancora di beva soddisfacente, ma tre di loro, nonostante le aspettative, hanno davvero sorpreso tutti e si sono alzati a un livello difficile da immaginare nonché, come potete intuire, anche difficile da trasmettere.
Champagne brut AOC Collection 1982 Taittinger
Bere uno champagne di oltre 40 anni è una di quelle esperienze che un appassionato di vino dovrebbe provare almeno una volta nella vita. Dico subito che, come pochi altri, ha saputo scatenare un mix di sensazioni impossibili da riportare in toto. Il colore era pieno, ambrato con qualche riflesso arancio, scorreva nel bicchiere carico della propria storia, dei propri anni ma allo stesso tempo esprimeva una giusta vivacità briosa da far subito intuire il passaggio successivo.
Un blend Chardonnay 45%, PN 35%, Meunier 20% che, avvicinato al naso, ha fatto scoprire un mondo caratterizzato per la coesione degli opposti. Panetteria ancora ben riconoscibile, dritta e precisa che si è sposata divinamente con note avvolgenti di miele di castagno, resina e caramello. Il tempo di riposo nel calice è stato un prezioso alleato: nei minuti sono uscite, fra le altre, albicocca secca e polpa di arancia rossa e poi ancora nuovi soffi di nocciola tostata con supporto speziato a lasciare una particolare e inaspettata sensazione complessiva di giovanile esuberanza. Con il passare dei secondi, si è avuta come l’impressione di assistere a una ouverture in cui arrivano sequenzialmente tutti gli strumenti: la frutta come gli archi, le spezie gli ottoni, le note calde le percussioni.
L’atto principale dell’”opera” si è avuto in bocca. Ogni sensazione si è sprigionata in pienezza e il sorso è stato allo stesso tempo sia caldo ed avvolgente che teso e verticale. Il vago ricordo del perlage e la presenza in retro-olfazione della crosta di pane ne hanno comunque ricordato l’essenza – dopotutto stiamo parlando di uno champagne – ma allo stesso tempo si è capito che ci apprestavamo a bere molto di più.
Avendo l’ardire di attendere ancora qualche minuto, ogni sorso ha saputo regalare sensazioni sempre più ampie. La cosa che ha stupito e che ha oggettivamente estasiato oltre la complessità della bevuta, è stata l’assoluta precisione degli elementi che ne componevano il gusto. Ogni attore ha recita il suo ruolo senza sovrastare gli altri ma allo stesso tempo senza esserne sopraffatto: ogni sentore è apparso pulito, nitido e lungo, molto lungo. In bocca non finiva mai e mai si è sbilanciato o scomposto mantenendo costante quel profinlo elegante e raffinatezzo.
Paullac AOC Grand Vin de Château Latour 1984 Château Latour
Dopo aver bevuto altri quattro assoluti fuoriclasse (tre con collo mozzato) è arrivato il momento di Latour e appena versato il vino nel bicchiere, è stata condivisa l’impressione di trovarsi davanti a qualcosa che sarebbe potuto rivelarsi unico.
Non avessimo conosciuto l’annata di vendemmia, lo avremmo fatto più giovane almeno di 10/15 anni tanto era vivo il suo carminio che sfumava appena verso distinguibili colorate nuance di evoluzione… un niente per questa meraviglia che aveva “sulle spalle” 40 vendemmie “spaccate”. Non avessimo neppure conosciuto ciò che si dice sulla 1984 a Pauillac – “année pauvre”! – ci saremmo forse entusiasmati un “pizzico” meno.
Avvicinato al naso ha sprigionato tutta la sua magnificenza; un frutto ancora ben presente e fresco con quelli scuri dominanti, in particolare il ribes nero, poi rabarbaro e nocciola. Più che la singola sensazione (emozione), stupisce il suo complesso impianto da dove escono sentori terziari figli di un invecchiamento baciato dalle divinità enoiche. Fra percezione e suggestione, pare di respirare la campagna bordolese, le ghiaie del cuore médocain fra note di sottobosco e inebrianti afflati di cuoio.
Ha proseguito a liberarsi col passare dei minuti e con gentili roteazioni del bicchiere ha saputo idealmente ergere una colonna di continue sensazioni concessesi con ritmo lento e costante tanto da creare al tavolo un misto di quelle emozioni che portano quasi al timore reverenziale nel portare il calice alla bocca mentre ti sale la brama di farlo. In quel breve lasso di tempo che separa l’olfazione dalla bevuta si racchiude il significato profondo della famosa frase di Lessing: «l’attesa del piacere è essa stessa il piacere».
Il vino in bocca ha lasciato tutti senza parole e da subito: una precisione sbalorditiva. Ciò che era arrivato al naso si è fuso al palato con una tale grazia che solo i più grandi vini di Bordeaux riescono a regalare. Prima ancora di parlare di morbidezze, durezze, tannini, struttura e via discorrendo dobbiamo necessariamente porre l’accento sulla sua eleganza e finezza: scorreva in bocca come una danza, come una prima teatrale, come un concerto di raffinata musica classica. Capita rarissime volte che l’essenza stessa del prodotto sia così ben manifesta e così ben espressa. Ovviamente caldo e suadente, di trama vellutata sulle papille con tannini perfettamente integrati, ormai gentili. L’impressione è stata quella di assaggiare un capolavoro assoluto arrivato comunque dopo altri fuoriclasse.
Straordinaria poi, quasi incredibile, la sua vitalità: ancora assolutamente vivo e vibrante. Un vino che ha saputo mantenere nei decenni un’acidità e una verticalità fuori da ogni logica, fuori dal tempo. Il problema (forse) sta nel riuscire a trovare un’altra bottiglia in cui tutte le congiunzioni astrali siano così favorevoli; sarà un’impresa estremamente ardua ma, comunque, ci proveremo con piacere.
Grands Échézeaux AOC 1995 Domaine de la Romanée-Conti
Alla fine di questa giostra di emozioni e assaggi, condita da 4 Premiers Grands Crus Classés, è arrivata la bottiglia talmente “grande” da “dettare le regole” del tavolo (seppure non paragonabile con le altre AOC della serata anche per la sua, relativa, giovinezza).
Dalla n. 7772 di 9253 bottiglie, il vino è sceso nel bicchiere facendo salire un brivido misto di delusione e dubbio perché il colore pareva spento, troppo tenue anche per un Pinot noir. Dopo 6 grandi bottiglie, la paura di aver trovato quella fallata c’era tutta e con l’oggettivo timore che all’olfatto potessimo trovare riscontro alle perplessità.
I più intrepidi di noi, o forse quelli con più sete, sono stati quelli che per primi hanno allontanato i dubbi: ancora chiusura nella percezione degli odori (nonostante una stappatura ampiamente preventiva) ma allo stesso tempo niente di sgradevole e fortunatamente nessuna volatile, nessun “cane bagnato”, nessuna muffa: un primo gran sollievo. Anche in questo caso il tempo ha ovviamente giocato da prezioso alleato e con il passare dei minuti (sollecitandolo delicatamente) ho atteso che lentamente si aprisse in tutta la varietà dei suoi profumi.
Non ha senso dilungarsi sulle differenze tra la Borgogna e i precedenti Bordeaux ma, come naturalmente si può immaginare, pur nella grandissima e stimolante ampiezza gusto-olfattiva-emozionale sarebbe blasfemo qualsiasi paragone ed è stato ben più saggio goderseli nel momento, traendone a pieno il piacere senza avere la sciagurata tentazione di dire «meglio questo o l’altro?».
Ogni percezione sembra delicata e potente allo stesso tempo: i piccoli frutti di bosco danno brio, i petali di rosa abbracciano, le spezie dolci scavano in profondità, il vasto impianto dei terziari nobilita e impreziosisce tutta la struttura. Mosso il calice con grazia “ballano” prevalentemente vaniglia, miele, sottobosco con un’impronta terrosa su costanti note di arancia sanguinella. Non saprei come spiegare bene il suo essere un vino che “ti entra in testa più che nel naso“.
All’ingresso in bocca (come sarà accaduto anche a molti di voi in casi simili), dopo le premesse, mi sono rivisto bambino davanti al parco giochi: trepidante di godermi ciò che stava per accadere. È stato soave, marcato da una grande morbidezza e una freschezza straordinaria. Ha fatto della complessità il suo tratto distintivo poi… la persistenza. Un vino che è parso non finire e non ripertersi mai, lasciandoti con l’idea che la sua lunghezza arrivi dal signorile fare armonico di tutto l’insieme degli aromi con tannini di sostegno e sufficientemente ammansiti.
Mi capita qualche volta la fortuna di assaggiare i grandissimi vini, nonostante ciò quel sorso è stato un’esperienza a tratti trascendente. Lo è stato un po’ per tutti e si è creato una sorta di silenzio. Lo sapete cosa di solito accade quando assaggiate un ottimo vino: sale il piacere e scatta la voglia di dire la propria, condividendola con quella degli altri… Ecco, al nostro tavolo ci siamo un po’ ammutoliti tutti, intenti a comprenderne lo sviluppo e capire potesse riuscire a scavarti nella testa e nel cuore in maniera così prepotente ma al contempo discreta. La sensazione di freschezza rimasta dopo l’espirazione è stata quasi incredibile con un medio-palato in cui il frutto ha acquisito forza: more di rovo lasciavano spazio all’amarena, alla prugna, al cassis. Poi profonde sensazioni di incenso, grani di caffè appena macinati, essenze di sandalo, cannella, note di zafferano e pepe.
Inebriati da tanta bellezza – bontà che diventa bellezza – ci siamo lasciati del tempo per metabolizzare la fortuna dell’esperienza. Checché se ne dica o se ne racconti, sono rarissime le occasioni nella vita che in una sera ti mettono sul tavolo 7 meraviglie come queste, fantastica e, per certi aspetti, uniche nel loro genere.
Nonostante tutto ciò, rimane il pensiero che nessuna di queste “bottiglie dai colli più o meno mozzati” sarebbe probabilmente sembrata così impareggiabile se non fosse stata condivisa su una tavola fatta di appassionati ma, soprattutto, di amici.
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