I luoghi comuni sul vino naturale, il dealcolato e il terroir. Qualità, scienza e magia mosse dal mercato e dall’integralismo enoico
No, no… non partiamo con il piede sbagliato, vi prego. Il titolo può suonare strano, lo capisco, ma non tirate conclusioni affrettate. Provate a seguirmi “passo passo” e capirete dove voglio arrivare.
[si legge, più o meno, in: 7 minuti]
Negli ultimi anni avrete sicuramente sentito parlare in maniera sempre più insistente di una – così pare ormai diventata – “tipologia” di vino come unica portatrice di gusto e verità, almeno a detta di tanti appassionati. Sto parlando ovviamente del vino “naturale”.
La “magia” dei vini naturali
Ma cosa si intende per vino naturale? Il termine naturale associato al vino può in effetti sembrare strano in quanto il vino di naturale ha ben poco. Se prendiamo dell’uva e la lasciamo sulla pianta nella migliore delle ipotesi il risultato naturale è l’appassimento, nella peggiore la marcescenza. Se produciamo un mosto di uva il risultato naturale senza alcun intervento o almeno quello che sembra più probabile è la formazione di aceto o comunque un liquido molto ricco in acido acetico.
Quelli del settore intendono per vino naturale cose diverse a seconda dell’associazione di cui fanno parte. Questo perché, secondo legge, il vino naturale non esiste e quindi non esiste neppure un disciplinare da seguire per produrlo. Esistono però delle associazioni di produttori che definiscono un proprio regolamento interno ma, ad oggi chiunque può dichiarare di produrre vino naturale. E lo può fare certamente “a voce” perché sulla bottiglia non si può scrivere.
Da un punto di vista normativo la confusione, quindi, regna sovrana.
Nonostante questo i vini naturali sono diventati molto popolari in una determinata fascia di consumatori e molti produttori hanno colto la palla al balzo professando i propri vini come naturali (in effetti: se non c’è legge non c’è neppure reato). Teoricamente – ma neppure troppo in teoria – su un prodotto imbottigliato anche con evidenti difetti alla mescita, si è chiuso più di un occhio nel momento in cui lo si è giustificato e difeso perché “naturale”. Da qui si è poi creata una sorta di scissione tra chi ama i vini naturali anche se hanno difetti – per alcuni anche meglio perché è un sinonimo di genuinità – e chi invece li vede spesso come una trovata di marketing.
Come disse Clark Gable in Via col vento – e lo dico subito a scanso di equivoci – francamente me ne infischio. Che sia definito naturale o no, l’importante è che sia buono, fatto bene, privo di difetti e magari pure rappresentativo di un determinato terroir.
Ho deciso di scrivere questo articolo privo di preconcetti ma decisamente critico verso alcuni aspetti del “naturale”.
Come detto, esistono molte associazioni e freelance nel mondo del vino naturale ma, solitamente, ciò che li accomuna sono, ad esempio: il basso intervento in vigna permettendo l’uso di prodotti naturali e minime quantità di rame e zolfo. Altro ancora: la raccolta manuale delle uve, la fermentazione spontanea, il minor intervento possibile durante la vinificazione, non chiarificare, possibilmente non filtrare e aggiungere bassissime quantità di solforosa (unica sostanza che è permesso aggiungere al vino) anche se è meglio non metterla.
Riguardo le pratiche agronomiche, non c’è molto da dire. Personalmente sono un fermo sostenitore del fatto che il vino si fa in vigna e non in cantina e quindi minimi interventi vanno benissimo. L’importante è portare alla vendemmia uve sane e mature quanto basta.
Si potrebbe obiettare che l’uso di rame non è così naturale anche in bassi quantitativi perché è un metallo pesante che tende ad accumularsi nel terreno e che a volte per lo stesso motivo si potrebbero usare delle sostanze comunque di sintesi ma meno tossiche. Il che poi va pure a cozzare col concetto di agricoltura biologica. Questo però è un altro discorso che non posso permettermi adesso di sviluppare.
I concetti critici che voglio analizzare sono fondamentalmente due, considerati i più importanti per il vino naturale ma fortemente opinabili: fermentazioni spontanee e zero pratiche enologiche.
La Fermentazione spontanea
Per capire meglio è necessario partire un poco da lontano, parlando di lieviti. Per farla breve, sono microorganismi che si trovano naturalmente nell’ambiente e vengono trasportati da agenti atmosferici (tipo il vento o la pioggia) o vettori animali (insetti in primis).
Ne esistono di moltissime specie e famiglie, si nutrono essenzialmente di zuccheri a 6 atomi di carbonio (glucosio su tutti) e riescono a metabolizzarli con la cosiddetta “respirazione” che avviene in presenza di ossigeno e trasforma gli zuccheri in anidride carbonica ed energia. Alcune specie riescono a metabolizzare lo zucchero in assenza di ossigeno con un meccanismo (a noi molto familiare) noto come “fermentazione” che produce alcool etilico ed anidride carbonica come metaboliti. Tra le specie in grado di fermentare c’è naturalmente il noto Saccaromyces Cerevisiae ma anche altre tra cui i “temutissimi” Brettanomyces.
Lo scopo principale di un lievito è sopravvivere e riprodursi e normalmente lo fa metabolizzando lo zucchero tramite la respirazione. I lieviti presenti nell’ambiente si posano sullo strato ceroso esterno agli acini (pruina) ma anche su altre parti del grappolo.
Secondo i produttori di vini naturali, i lieviti presenti sugli acini (insieme ad una specifica popolazione microbica) cambiano da luogo a luogo e quindi da considerare rappresentativi della zona e, per farla breve, capaci di trasmettere al vino dei sentori tipici. Già, tipici… facciamo però qualche riflessione.
- In verità dobbiamo dire che sulla pruina non si trovano così molti lieviti perché, su questo strato ceroso, hanno poco di cui cibarsi. La più grande concentrazione si troverà dove c’è dello zucchero da metabolizzare, quindi su spaccature dell’acino ma, particolarmente, all’attaccatura tra picciolo e acino. Il risultato è che: con uve perfettamente maturate avremo sicuramente pochi lieviti indigeni mentre su uve non troppo sane ne avremo sicuramente di più. Prima riflessione.
- La seconda considerazione è ancora più importante: lo scopo dei lieviti in natura è di riprodursi mentre in enologia è di trasformare il mosto in vino e principalmente trasformare sia tutto lo zucchero in alcol e CO2 che i precursori degli aromi degli acini in aromi secondari (fermentativi). Pensare quindi che “quasi per magia” i migliori lieviti possibili in ogni zona siano andati a depositarsi su quelle uve per dare un vino più rappresentativo del territorio pare, almeno a me, abbastanza inverosimile al limite dell’esoterico. Il compito dei lieviti si limita alla trasformazione del mosto e se questo è di buona qualità si potrà avere un buon vino, altrimenti…
Se il mosto fosse di buona qualità non ci sarebbero però verosimilmente così tanti lieviti indigeni. Non a caso molti produttori per risolvere questo problema si preparano un pied-de-cuve proprio con dei lieviti “indigeni” da usare come starter per la fermentazione o come adiuvante in caso di blocchi fermentativi. Quindi selezionano i migliori lieviti indigeni per evitare spiacevoli inconvenienti.
- Terza considerazione importante è che: utilizzando i lieviti selezionati si immagina già come avverrà il processo fermentativo mentre con gli indigeni no. La fermentazione spontanea è una sorta di corsa contro il tempo. Sono tante le varietà di lieviti che iniziano la fermentazione, quelle più veloci prenderanno sicuramente il sopravvento ma non si è mai sicuri su quali saranno ed essendoci pure i Brettanomyces è possibile ritrovarsi anche dei difetti nel vino.
Il pied-de-cuve può facilitare il tutto ma non dimentichiamo che questi lieviti indigeni (fossero anche i migliori) non sono realmente lì per far partire una fermentazione e potrebbero quindi avere, per esempio, una bassa tolleranza all’alcol. La fermentazione potrebbe così bloccarsi e lasciare un residuo zuccherino più o meno importante nel vino.
- Quarta considerazione è che la fauna microbica è la stessa che si troverà in uve vinificate con lieviti selezionati, un mix molto eterogeneo di specie la cui funzione principale è quella di svolgere la fermentazione malolattica quando è desiderata. Solfitaggi e/o filtrazioni servono poi per non ritrovarsela nel vino imbottigliato per evitare eventuali difetti tipo fermentazioni acetiche o alcune malattie tipiche dei vecchi vini dei nonni.
Quindi, scusate, ma tra “scienza” e “magia” preferisco dare retta alla prima. Poi, intendiamoci, ci sono tantissimi ottimi vini prodotti con fermentazioni spontanee ma il merito non è certo di queste.
Il “no” alle pratiche enologiche
Seconda questione è il rifiuto di qualsiasi pratica enologica. Qui il discorso è decisamente meno articolato ma anche più ostico.
Abbiamo detto che i lieviti indigeni sono più presenti in annate in cui le uve non hanno una perfetta maturità. In secondo luogo che: durante una fermentazione spontanea il lievito più veloce è quello che prevale. E per finire che non è così certo che il lievito riesca a svolgerla causa intolleranza agli alti livelli di alcol o altri metaboliti. La conseguenza è che si possono formare dei composti non voluti nel vino (ad esempio ad opera di fermentazioni guidate da lieviti della famiglia Brettanomyces) o ancora peggio che la fermentazione possa fermarsi prima di aver trasformato tutti gli zuccheri.
Quest’ultima possibilità è particolarmente pericolosa per diversi motivi. In questa situazione la precauzione più sicura sarebbe di fare una filtrazione sterile per rimuovere dal vino eventuali microorganismi perché, se presenti, potrebbero far rifermentare in bottiglia. Potremmo così avere inaspettatamente nel vino dello zucchero, dell’anidride carbonica (il minore dei mali) o dei sentori di feccia poco piacevoli.
Non voglio caricarvi troppo ma ci sarebbe parecchio altro e mi limito a ricordare che se il mosto di partenza deriva da uve poco sane potrebbero insorgere problemi legati alla presenza di batteri. Per non parlare di precipitazioni proteiche, torbidità (a volte un poco eccessive), volatili molto alte, ossidazioni, sentori di feccia e… insomma, bisogna davvero essere molto fortunati affinché tutto vada bene, ci vuole veramente un poco di magia…
I dealcolati
Il dealcolato (mi rifiuto di associarci la parola vino) si ottiene da un prodotto ottenuto dalla normale fermentazione del mosto d’uva che viene poi sottoposto a una eliminazione totale o parziale dell’alcol etilico. Questa separazione dell’alcol avviene solitamente tramite processi di osmosi o per distillazione. I procedimenti brevettati sono diversi ma le tecniche utilizzate sono solitamente queste due.
Se dovesse interessarvi potremmo trattare in futuro, con altri articoli, della chimica-fisica alla base dei processi e degli effetti molecolari sul prodotto. In questa sede mi basta far capire che stiamo parlando di un prodotto interamente fatto “in laboratorio” che non ha assolutamente niente di “naturale” e che, almeno a oggi, assieme all’etanolo fa perdere altre importanti molecole tra cui quelle aromatiche.
Il dealcolato (lo pseudo-vino) così prodotto è naturalmente meno stabile e deve essere pastorizzato o solfitato (oltre che filtrato). Inoltre non essendo presente l’etanolo sarà comunque poco profumato per la difficoltà degli aromi di essere veicolati alle nostre mucose nasali.
Potremmo per assurdo paragonare questa bevanda all’esatto contrario del vino naturale ma – ancora più per assurdo! – con un target di consumatore finale molto simile.
Il Terroir
Legame con il terroir?!? E cosa ci incastrerebbe il terroir con tutto questo? Abbiate pazienza e provo a spiegare.
Troverete più di una definizione ma, per farla breve, è definibile “terroir” l’insieme di terreno, clima, zona geografica, metodi di coltivazione, pratiche enologiche, vitigni e tradizioni legate ad un particolare luogo.
Produrre un vino di “terroir” vuol dire produrre un vino strettamente rappresentativo del territorio di provenienza e della sua cultura enogastronomica ma non solo. Il luogo dove è più facile comprendere il concetto di terroir è sicuramente la Cote d’Or in Borgogna. Forse in nessun altro luogo al mondo vi è una così intima correlazione tra zona di produzione intesa a 360° e vino. Non a caso per definire un vino non si parla mai del vitigno ma del comune di appartenenza o del vigneto. In Cote d’Or non si fanno vini con pinot noir o chardonnay ma si fanno dei Corton, Gevrey Chambertin, La Tache, Nuits-Saint-Georges, Mersault e così via.
Le pratiche agronomiche ed enologiche sono (a grandi linee) più o meno le stesse per tutti i produttori, quello che cambia sono suolo, altitudine (poche decine di metri) ed esposizione.
Con i dealcolizzati il terroir va a quel paese; il vino di partenza, anche se di terroir, viene totalmente snaturato con pratiche altamente invasive e trasformato in quello che vino non è: una bevanda.
E per i vini naturali? A mio modesto avviso questa sta diventando una tipologia altamente “standardizzata”. Ogni produttore ormai produce i pet nat, i macerati, una sorta di rosati ed i rossi. Il legame con il territorio e le tradizioni vanno scomparendo per favorire quel gusto “naturale” del vino che però rischia di diventare qualcosa di omologato, totalmente slegato al territorio ma legato a un’idea di vendere il vino che piace al consumatore. In questo senso il parallelismo con i vini dealcolati (anche se paradossale e come accennato sopra) è molto stretto.
Potremmo scrivere paragrafi e paragrafi di quanto sia poco legato al territorio produrre vini frizzanti in zone dove non si sono mai prodotti oppure di come il macerare tutti i bianchi sia a volte una forzatura e questo perché se le brevi macerazioni enfatizzano le caratteristiche di un’uva, quelle lunghissime tendono ad uniformare. Serve quindi fare attenzione a definirli come vini tipici del territorio e rappresentativi della tradizione. Immaginate se andaste in Cote de Beaune a bere un Mersault o un Batard Montrachet e vi dessero invece uno chardonnay macerato e affinato in cemento magari? Stessa cosa a Chablis o in diverse zone della Loira per lo chenin o il sauvignon blanc.
Oppure se andaste a Chateauneuf du Pape e vi proponessero un viogner macerato, un pet nat fatto con grenache e syrah, un rosato di picpoul noir o un rosso a base cinsault. Vini magari anche piacevoli, divertenti, pure buoni certo. Ma parlare di vini di terroir sarebbe un’eresia.
Sento già che qualcuno mi sta facendo una obiezione più che sensata: quello che definiamo vino “di terroir” o tipico di un posto spesso cambia nel tempo. Dal Vinsanto toscano oggi molto diverso da cinquant’anni fa, al Trebbiano toscano macerato che piano piano sta diventando un prodotto tipico ad altri esempi ancora più eclatanti. A metà 1800 il vino tipico di Montalcino era piuttosto il Moscadello, il Sangiovese ancora veniva poco coltivato, il Chianti Classico moderno ha poco a che vedere con quello pensato da Ricasoli, ecc ecc.
Concordo che il concetto di tipicità e le caratteristiche di un vino possano cambiare nel corso del tempo a causa di cambiamenti climatici, culturali, economici ma, secondo me, qui il concetto è un poco diverso e più connesso ad un desiderio di creare un gusto, un modo di fare vino, una sorta di “filosofia del bere“.
Stiamo attenti: non nego che alcuni naturali possano essere piacevoli, buoni, anche grandi vini ma spesso rischiano di non essere vini rappresentativi del territorio. Fermentazioni spontanee, contaminazioni batteriche, piccoli difetti in realtà più che enfatizzare un territorio tendono ad omologare ad un gusto che piace al consumatore.
Come quelli che… bevono Coca cola o i dealcolati. Mio pensiero “naturalmente” e senza rancore.
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